E se le aziende vi pagassero per firmare un contratto di lavoro?

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contratto con bonus alla firma

Ti pago per firmare un contratto: bonus alla firma tra premi, incentivi ed esche contrattuali

Negli ultimi anni si è diffusa in modo sempre più visibile una pratica che, fino a poco tempo fa, era riservata quasi esclusivamente ai top manager delle multinazionali o alle superstar dello sport: il bonus alla firma, o signing bonus. Si tratta di un incentivo economico offerto al momento della sottoscrizione di un contratto, con l’obiettivo di attrarre un determinato profilo, convincerlo a scegliere una determinata azienda (o squadra) e bloccare offerte concorrenti.

Oggi questo meccanismo non riguarda più solo i CEO o gli ingegneri specializzati, ma è presente anche in contesti molto diversi: dai calciatori svincolati che negoziano premi alla firma milionari, fino ai giovani lavoratori dei call center, spesso attratti da promesse di bonus iniziali che nascondono dinamiche meno trasparenti.

Ma cos’è davvero un bonus alla firma? È un premio per il talento riconosciuto o solo un’esca contrattuale per ingabbiare il lavoratore fin dal primo giorno?

Un signing bonus è, per definizione, una somma di denaro concordata tra le parti e versata (in teoria) alla firma del contratto. Ha origine nel mondo anglosassone e si è diffuso prima nelle aziende tecnologiche e finanziarie, poi in tutto il panorama corporate globale. In alcuni casi viene effettivamente corrisposto in un’unica soluzione; in altri, invece, è spalmato nel tempo, vincolando il lavoratore a rimanere in azienda per mesi o anni, pena la perdita del bonus stesso — una condizione che trasforma il premio in una trappola a lungo termine.

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Il caso dei CEO e dei dirigenti di alto livello

Nel mondo corporate, il bonus alla firma è ormai una pratica consolidata quando si tratta di attrarre CEO o dirigenti di alto profilo. Viene utilizzato per convincere talenti rari ad accettare un’offerta, spesso in un mercato del lavoro altamente competitivo, dove le aziende si contendono una manciata di figure strategiche.

Tra le motivazioni principali spiccano:

  • Attrarre profili difficili da trovare, con competenze altamente specializzate.
  • Compensare il rischio legato al cambio aziendale, che può comportare perdita di benefit, stock option o stabilità.
  • Evitare che vadano dalla concorrenza, bloccando così il passaggio a competitor diretti.

Questi bonus, tuttavia, pongono problemi etici e di governance. In primo luogo, si tratta di compensi anticipati per risultati non ancora dimostrati. Un dirigente può incassare un bonus importante e poi non performare secondo le aspettative, o addirittura lasciare l’azienda dopo poco tempo. Inoltre, esiste un evidente disallineamento tra interessi individuali e obiettivi aziendali a lungo termine, specialmente quando i bonus non sono legati a risultati concreti.


Il parallelo con il calcio

Una dinamica simile si osserva nel mondo del calcio professionistico, soprattutto quando si parla di giocatori svincolati. Quando un atleta arriva a parametro zero, ovvero senza costi di trasferimento, il club di destinazione risparmia sull’acquisto del cartellino ma spesso è disposto a riconoscere al calciatore un sostanzioso bonus alla firma.

Esempi pratici non mancano: Franck Kessié al Barcellona o Gianluigi Donnarumma al Paris Saint-Germain hanno ottenuto premi alla firma milionari, proprio perché si sono trasferiti da svincolati. In questo caso, il bonus non è solo un premio, ma un incentivo chiave per chiudere la trattativa, dato che il calciatore è libero di negoziare con più club e scegliere l’offerta più vantaggiosa.

Anche qui, come nel caso dei CEO, parliamo di talento raro, mercato aggressivo e bonus usati come leva decisiva per siglare l’accordo.

Il caso (molto meno dorato) dei call center in Portogallo

Nel panorama portoghese, il settore dell’outsourcing e dei call center internazionali è in piena espansione, attirando lavoratori da tutta Europa grazie al basso costo della vita, alla fiscalità favorevole per le aziende e a una forza lavoro multilingue.

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Per attrarre personale, molte aziende propongono bonus alla firma anche ai livelli più bassi della gerarchia lavorativa. Alcune offerte parlano di 1.000€ per firmare un contratto di lavoro, una cifra che, sulla carta, appare allettante per giovani precari o expat in cerca di un primo impiego.

In alcuni i casi i bonus possono addirittura raggiungere bonus fino ai 5.000€

La realtà, però, è spesso diversa:

  • Il bonus non viene versato subito, ma spalmato su 6 o 12 mesi.
  • Il lavoratore si ritrova vincolato implicitamente a restare fino al termine del periodo, pena la perdita del bonus promesso.
  • Si tratta di una strategia mirata a limitare il turnover, in un settore dove le condizioni di lavoro precarie portano a un alto tasso di abbandono.
  • In questo modo, le aziende aggirano la concorrenza e mantengono una parvenza di attrattività economica, senza investire in reale miglioramento delle condizioni.

Cosa dice la legge e cosa dice l’etica

I bonus alla firma, di per sé, non sono illegali. Rientrano nella libertà contrattuale tra le parti, a patto che siano chiaramente indicati nel contratto e non mascherino altri elementi della retribuzione.

Il problema sorge quando diventano strumenti di manipolazione o di opacità salariale, soprattutto nei settori meno tutelati. Se il bonus viene usato per sostituire parte dello stipendio fisso o per limitare la libertà del lavoratore, allora si entra in una zona grigia sul piano etico.

Le organizzazioni sindacali denunciano da tempo queste pratiche, ma la regolamentazione è difficile, soprattutto quando i contratti sono individuali, internazionali o formalmente corretti.


I rischi della pratica

Nel breve termine:

  • Disallineamento tra promessa e realtà, come nel caso dei call center, dove il bonus iniziale è più marketing che reale vantaggio.
  • Instabilità contrattuale, con lavoratori disillusi e propensi a cambiare appena possibile.

Nel lungo termine:

  • Inflazione salariale artificiale, non sostenibile nel tempo e scollegata dalla produttività.
  • Falsa fidelizzazione, che non si traduce in reale attaccamento all’azienda.
  • Etica aziendale compromessa, con una cultura del lavoro basata su incentivi a breve termine anziché su condizioni stabili e trasparenti.
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Un bonus alla firma può essere utile e meritato, ma solo se trasparente

Il bonus alla firma può avere una funzione legittima: attrarre un talento, compensare un rischio, incentivare una scelta difficile. Ma la chiave è la trasparenza. Quando è chiaro, dichiarato e scollegato da meccanismi punitivi, può essere uno strumento positivo sia per il lavoratore che per l’azienda.

Bisogna però distinguere tra attrarre e trattenere. Il primo richiede un incentivo, il secondo richiede fiducia, condizioni e prospettive reali. Un premio iniziale non può sostituire una cultura aziendale sana o un progetto di lungo periodo.

E tu, firmeresti solo per il bonus?

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