Quella volta che il Portogallo decise di vivere con il fuso orario sbagliato

La strana avventura dell’orario dell’Europa Centrale, tra buone intenzioni e risvegli al buio
Perchè il Portogallo decise di spostare il suo fuso orario nel 1992?
Nel 1992, il Portogallo prese una decisione che avrebbe stravolto la quotidianità di milioni di persone: allinearsi all’orario dell’Europa Centrale (CET), abbandonando il tradizionale fuso di Lisbona (WET). Fu una scelta politica, economica e simbolica. Ma fu anche un fallimento clamoroso, fatto di mattinate buie, sonnellini in classe, sprechi energetici e un popolo che si ritrovò, letteralmente, fuori tempo.
L’idea: essere più “vicini” all’Europa
Il contesto era quello del governo di Aníbal Cavaco Silva, un’epoca di crescita economica e di forte volontà d’integrazione con l’Europa. Il Decreto-Legge 124/92 sancì il passaggio dal fuso di Greenwich (WET/UTC+0) al Central European Time (UTC+1), con l’obiettivo dichiarato di armonizzare gli orari lavorativi con quelli dei partner commerciali europei, specialmente con Francia e Germania.
Era anche un’epoca in cui si credeva che piccole riforme di sistema potessero portare grandi benefici.
Il cambio entrò in vigore con l’adozione dell’ora legale estiva (UTC+2) da marzo a settembre, secondo le regole europee dell’epoca. Peccato che nessuno avesse chiesto un parere all’Osservatorio Astronomico di Lisbona, che conosceva bene gli effetti di una simile deviazione dal tempo solare.
L’effetto domino del jet lag nazionale
All’inizio si trattava solo di spostare le lancette. Ma il risultato fu ben più profondo: l’intero ritmo della vita quotidiana portoghese fu sfasato.
In inverno, il sole sorgeva dopo le 9 del mattino. I lavoratori partivano al buio, i bambini iniziavano la scuola nella penombra. Le scuole segnalavano un calo nel rendimento, disturbi del sonno e perfino bambini che si addormentavano durante le prime ore di lezione.
In estate, il sole tramontava oltre le 22:30, con il buio che arrivava solo intorno a mezzanotte. Le giornate sembravano infinite, ma disturbavano il sonno e il ciclo circadiano, soprattutto nei più piccoli.
Nessun risparmio, solo sprechi
Uno degli obiettivi era il risparmio energetico, ma la realtà fu l’opposto. Uno studio commissionato dalla Commissione Europea rivelò che non si risparmiava affatto. Al contrario: le luci venivano accese nelle prime ore del mattino – e spesso dimenticate accese per tutto il giorno.
Le ore di punta coincisero con i momenti più caldi, contribuendo all’inquinamento e all’aumento dell’uso dei condizionatori.
Incidenti, insicurezza, proteste
Anche la sicurezza pubblica ne risentì. Fu segnalato un aumento degli incidenti stradali, specialmente nelle prime ore del giorno. Le compagnie assicurative registrarono un incremento delle richieste di risarcimento. I genitori temevano per i figli che uscivano di casa al buio, e aumentavano i casi di aggressioni mattutine ai minori.
Nel giro di pochi anni, il malcontento era evidente. La misura, che doveva rendere il Paese “più europeo”, sembrava averlo allontanato dal buon senso.
Il ritorno all’orario giusto
Nel 1995, il nuovo governo guidato da António Guterres chiese all’Osservatorio di Lisbona una valutazione tecnica. Il verdetto, pubblicato nel febbraio 1996, fu chiaro: il Portogallo, per posizione geografica, appartiene al fuso di Greenwich, e lì doveva tornare.
Il Decreto-Legge 17/96 sancì il ritorno ufficiale all’ora di sempre: Western European Time (UTC+0), con ora legale estiva (UTC+1) da marzo a ottobre, in linea con le direttive UE. Anche Azzorre e Madeira si adeguarono alle nuove (o vecchie?) regole.
Una lezione nel tempo
Oggi, a quasi trent’anni di distanza, quell’esperimento resta uno dei più curiosi tentativi di “correggere il tempo” in nome dell’economia. Un esempio lampante di come le riforme astratte possono fallire se ignorano la realtà concreta delle giornate vissute dalle persone.
Il Portogallo ha imparato che il tempo non si può forzare. Si può giocare con le lancette, ma non si può cambiare il sole.