Quella volta che il Portogallo ha vinto i Mondiali… in Corea del Nord

Nel 2010, mentre il mondo intero celebrava la vittoria della Spagna ai Mondiali di calcio in Sudafrica, una versione completamente diversa della realtà emergeva all’interno della Corea del Nord. In uno degli esempi più bizzarri di manipolazione propagandistica, si diffuse nel paese la notizia che il Portogallo aveva vinto il torneo, sconfiggendo la Corea del Nord in una fantomatica finale.
Per molti nordcoreani, ciò non solo rappresentava un trionfo accettabile dopo la disfatta per 7-0 subita dai loro connazionali contro il Portogallo, ma confermava anche la narrativa di resistenza contro avversari eccezionali.
Questo episodio è emblematico del potere della propaganda nelle dittature, dove la realtà può essere riscritta a beneficio del regime. La Corea del Nord, in particolare, ha una lunga tradizione di manipolazione dell’informazione per rafforzare il controllo ideologico e mantenere intatto il culto del potere. In questo contesto, persino una sconfitta schiacciante sul campo di gioco può essere trasformata in una vittoria morale, elevando non solo la nazione ma anche la narrativa imposta dal regime di Kim Jong-un.
Perché il Portogallo è diventato campione del Mondo in Corea del Nord?
La narrazione del Mondiale in Corea del Nord
Il Mondiale 2010 rappresentava per la Corea del Nord un momento storico: era la prima volta che la squadra si qualificava per la competizione dopo ben 44 anni. Le aspettative erano alte, alimentate dal ricordo della loro sorprendente prestazione nel Mondiale del 1966, quando il paese era riuscito a raggiungere i quarti di finale, eliminando l’Italia in una delle più grandi sorprese della storia del calcio. Il ritorno sul palcoscenico mondiale era visto come una possibilità di riscattare quell’eredità e dimostrare la forza della nazione anche attraverso lo sport.
Il primo test per la Corea del Nord fu contro il Brasile, una delle squadre favorite per la vittoria finale. Nonostante la sconfitta per 2-1, la prestazione della squadra fu interpretata in patria come un segno di grande onore e resistenza. In un paese dove il calcio viene strumentalizzato per alimentare il patriottismo, il risultato contro una delle squadre più forti del mondo venne trasformato in un trionfo morale. La squadra nordcoreana divenne un simbolo di eroismo, elogiata per aver resistito ai giganti sudamericani, e la narrazione di regime la presentava come un baluardo di dignità di fronte a una sfida impossibile.
Il vero crollo, tuttavia, avvenne nella partita successiva contro il Portogallo. La sconfitta per 7-0 fu trasmessa in diretta in Corea del Nord, un fatto raro per una dittatura solitamente attenta a filtrare le immagini che arrivano al pubblico. Ma il risultato fu così devastante che subito dopo, il regime intervenne: non solo censurò ogni ulteriore menzione della sconfitta, ma cominciò a manipolare i fatti. La versione che venne diffusa tra la popolazione parlava di una partita interrotta dopo che il Portogallo aveva segnato il quarto gol, descrivendo il match come una lotta impari contro una potenza calcistica, senza mai rivelare il risultato finale.
Col tempo, la sconfitta venne rimodellata nella propaganda del regime: il Portogallo divenne addirittura “campione del mondo” in una storia alternativa costruita per proteggere l’orgoglio nazionale. La disfatta venne interpretata come una sconfitta accettabile contro una squadra di “campioni”, rinforzando la narrazione di un regime sempre pronto a riscrivere la realtà pur di mantenere il proprio controllo sull’opinione pubblica.
L’origine del mito: la “finale” con il Portogallo
Il mito della finale tra la Corea del Nord e il Portogallo, che avrebbe incoronato i nordcoreani campioni del mondo, affonda le radici in un episodio che il regime volle reinterpretare come un atto eroico. La figura centrale di questa fabbricazione fu, in parte, il Cristiano Ronaldo. In una nazione dove il culto della personalità è predominante, il famoso calciatore portoghese divenne l’oggetto di un’ossessione da parte dei media statali, che spesso lo descrivevano come il volto della potenza calcistica dell’Occidente. La sua immagine, iconica e di successo, fu utilizzata per creare un contrasto con la presunta umiliazione della Corea del Nord contro il Portogallo.
La verità dei fatti, tuttavia, era molto diversa. Dopo il 4-0 subito da parte della squadra di Carlos Queiroz, la partita venne misteriosamente interrotta, e il regime mise in atto una strategia di censura radicale. Fu così che la TV di Stato trasmise solo i primi 60 minuti del match, con una parziale censura che nascondeva l’ulteriore debacle. Il resto della partita non venne mai mostrato, e il regime, utilizzando il suo controllo assoluto sulle informazioni, cominciò a fabbricare una nuova realtà.
Attraverso il filtro della propaganda, la narrazione fu trasformata. La sconfitta divenne una “battaglia eroica” contro una squadra invincibile, e il Portogallo, pur vincendo con un punteggio schiacciante, venne descritto come il “campione” del Mondiale. La Corea del Nord, quindi, non perse mai davvero: si trattava solo di un momento di sacrificio, dove i calciatori avevano lottato con onore e dignità contro una squadra troppo forte. In questo modo, la sconfitta venne reinterpretata come una sorta di vittoria morale, contribuendo alla creazione di un mito che avrebbe avuto una lunga vita nel discorso nazionale.
La realtà fuori dai confini
Fuori dai confini della Corea del Nord, il Mondiale 2010 si svolse secondo una narrazione ben diversa, con la Spagna che si laureò campione del mondo battendo l’Olanda in una finale memorabile. Il punteggio di 1-0, ottenuto grazie a un gol di Andrés Iniesta durante i tempi supplementari, segnò la fine di un percorso trionfale per la squadra di Vicente del Bosque, che aveva dominato la competizione con un calcio elegante e incisivo. La vittoria spagnola divenne un simbolo di orgoglio nazionale per milioni di tifosi in tutto il mondo, con la figura di Iniesta che divenne un eroe per aver segnato il gol decisivo in una delle finali più emozionanti della storia recente del calcio.
Nel frattempo, il Portogallo di Cristiano Ronaldo, pur giocando un buon torneo, non riuscì ad andare oltre gli ottavi di finale, dove fu eliminato dalla Spagna in un drammatico 1-0. Quella sconfitta, benché amara, non intaccò la grandezza della squadra, ma fu invece un chiaro segno di quanto la Corea del Nord avesse costruito un mito parallelo e fantasioso, in cui la squadra di Carlos Queiroz avrebbe dovuto essere la vera vincitrice del torneo, almeno nel racconto ufficiale della dittatura.
La distanza tra la realtà e la propaganda si fece ancora più evidente quando si comparava il destino del Portogallo a quello della Corea del Nord. Mentre la Spagna festeggiava la sua prima vittoria mondiale, la Corea del Nord si rifugiava nella sua mitologia, trasformando una storica disfatta in una vittoria leggendaria che avrebbe dovuto stimolare il patriottismo e il culto della forza nazionale. Ma fuori dalla Corea del Nord, la verità era evidente: la Spagna aveva meritato il titolo, mentre il Portogallo, purtroppo, non riusciva ad andare oltre la sua eliminazione.
Le ripercussioni politiche per i calciatori nordcoreani
La disastrosa sconfitta contro il Portogallo al Mondiale 2010 non fu solo un colpo al morale della squadra nordcoreana, ma anche un enorme problema per il regime. In Corea del Nord, dove ogni errore viene visto come un segno di debolezza, la sconfitta fu considerata un fallimento non solo sportivo, ma anche politico. I calciatori, simboli della forza nazionale durante il torneo, divennero capri espiatori di un regime che non poteva tollerare l’idea di una sua debolezza davanti al mondo esterno.
Secondo alcune voci provenienti da fonti defector (fuggiti dal regime), i giocatori furono duramente puniti al loro ritorno in patria. Si parlò di una “auto-critica” pubblica, un rituale in cui i membri del team dovevano esprimere il loro pentimento per la sconfitta, e ciò potrebbe aver incluso anche punizioni fisiche o lavori forzati in luoghi isolati, un destino già riservato in passato a chi non soddisfaceva le aspettative del regime. I calciatori non furono i soli a subire conseguenze: gli allenatori e i dirigenti sportivi furono anch’essi presi di mira per non aver mantenuto l’immagine di una Corea del Nord invincibile, come imponeva il regime.
Questa reazione esemplare si inserisce in un contesto di tensione politica interna. Il regime di Kim Jong-un aveva bisogno di consolidare la propria immagine di invincibilità, e ogni segno di debolezza avrebbe potuto minare il controllo sulla popolazione. In un Paese dove ogni aspetto della vita è strettamente legato al potere, anche lo sport diventa uno strumento per promuovere l’ideologia. La disfatta della squadra di calcio divenne così una minaccia diretta all’immagine del Paese, e la punizione dei calciatori era una mossa per riaffermare il dominio assoluto del regime sulla realtà.
La costruzione della realtà in Corea del Nord
La manipolazione della realtà è uno degli strumenti principali attraverso cui il regime di Kim Jong-un controlla la popolazione. In Corea del Nord, ogni evento esterno, che sia politico, sociale o sportivo, è filtrato attraverso la lente della propaganda statale, che crea una versione della realtà che esiste solo nella mente dei cittadini. L’obiettivo è evitare che la popolazione possa avere una visione obiettiva del mondo e distogliere lo sguardo dalle difficoltà interne del Paese.
Nel caso della Corea del Nord al Mondiale 2010, la sconfitta contro il Portogallo e la successiva costruzione del mito di una “finale” tra i due Paesi dimostrano come il regime sia riuscito a riscrivere i fatti. Quella che era una sconfitta umiliante, con la squadra che subiva un rovescio storico, fu trasformata in una narrazione eroica, in cui la Corea del Nord diveniva il simbolo della lotta contro una potenza calcistica mondiale.
Questo non è un caso isolato. La propaganda sportiva ha sempre avuto un ruolo centrale nella costruzione del mito del Paese. Uno degli esempi più clamorosi risale alla Guerra di Corea (1950-1953), quando il regime utilizzò i successi sportivi come strumento di legittimazione e di affermazione internazionale. Anche in occasione degli eventi olimpici e delle competizioni internazionali, i successi dei propri atleti venivano ingigantiti e usati per mostrare la superiorità del sistema nordcoreano.
Il regime di Kim Jong-un ha anche utilizzato eventi sportivi come il Mondiale o le Olimpiadi per proiettare un’immagine di unità e forza nazionale, mentre le sconfitte venivano semplicemente ignorate o manipolate per servire gli interessi politici. In un sistema in cui ogni fallimento viene visto come un attacco all’identità nazionale, la realtà è costantemente costruita e adattata per assicurare il controllo della popolazione.
In sostanza, la manipolazione della realtà è un aspetto fondamentale della politica interna della Corea del Nord, e il Mondiale 2010 ne è solo un esempio di come il regime utilizzi lo sport per perpetuare il suo potere.